La mediazione nel settore bancario
Autore: Avv. Marzia Marconcini
La materia bancaria, o meglio, i contratti bancari, stando alla lettera dell’art. 5 c. 1 del D.Lgs. 28/2010, nella sua formulazione a tutt’oggi vigente, è forse quella in cui l’istituto della mediazione fatica di più a trovare spazio.
Nella prassi operativa, difatti, non è frequente che l’ente creditizio aderisca all’istanza del cliente che intende portare al tavolo del mediatore la situazione di conflitto insorta con la banca, preferendo quest’ultima eventualmente adire le vie della giustizia ordinaria per recuperare il proprio credito.
Questo atteggiamento di “chiusura” adottato dalla parte forte del conflitto, la banca, porta con sé alcune importanti conseguenze: tra di esse in questa sede preme, in particolare, soffermarsi su due aspetti.
In primo luogo, ci si ponga nell’ottica del cliente che ritenga che la banca stia tenendo un comportamento scorretto nei suoi confronti, spesso, in realtà, in ragione dell’atteggiamento dei singoli dipendenti con cui si trova ad aver a che fare piuttosto che per vere e proprie politiche aziendali; in secondo luogo, si guardi al caso, tutt’altro che infrequente, in cui il cliente divenga un “cattivo pagatore”, ipotesi nelle quali, come accennato, sovente l’istituto creditizio rifiuta completamente il dialogo, preferendo, piuttosto, attuare altre politiche più “asettiche”, come la cessione del credito a soggetti specializzati.
Orbene, nel primo caso, specie se la questione ha una rilevanza economica non particolarmente elevata, il cliente che lamenta un trattamento iniquo da parte della propria banca vedrà frustrati i propri interessi, dal momento che, tranne che nel caso in cui si sia rivolto ad un soggetto terzo, come un’associazione di consumatori, qualora il primo incontro di mediazione non dia riscontro della presenza dell’ente chiamato, con ogni probabilità, se pur a malincuore, si vedrà costretto ad abbandonare la sua personale battaglia per la tutela dei propri diritti, di fronte alla possibilità di dare avvio ad un processo con una previsione di durata molto lunga, con costi elevati e dall’esito proverbialmente incerto.
Almeno prima facie, quindi, la banca sembrerebbe aver avuto facilmente la meglio, essendo riuscita a tacitare il cliente, ma a ben vedere si tratta probabilmente di una vittoria di Pirro, perché, non essendo stato sanato il conflitto sottostante, il cliente insoddisfatto troverà ogni mezzo per ottenere soddisfazione e, quasi sicuramente, alla prima occasione utile cambierà anche banca.
Anche la seconda delle ipotesi sopra delineate merita qualche spunto di riflessione. Nel caso in cui il cliente debitore versi in una condizione di criticità, la banca solitamente pare ritenere la soluzione più veloce e remunerativa la via del recupero diretto del credito, o, ancora più classicamente, la cessione dello stesso a imprese specializzate. Questa opzione, se fino a qualche anno fa poteva essere quanto meno comprensibile, in questo periodo di difficoltà generalizzata per tutti i settori economici, conseguente in primo luogo agli effetti della pandemia da Covid-19 con i suoi reiterati quanto prolungati lockdown, e oggi anche alla più recente crisi energetica, rischia di divenire poco remunerativa.
Da un lato, infatti, ancora oggi, se pur si è avviata una fase di lenta ripresa, è purtroppo all’ordine del giorno la chiusura di numerose imprese che sono costrette a soccombere di fronte ai crescenti costi non compensati dai risicati ricavi. Dall’altro, non è più così infrequente che anche clienti notoriamente in bonis si trovino in condizioni, seppur temporanee, di criticità.
In questo quadro di incertezza economica, dove anche per le banche rispettare le condizioni di stabilità ed di adeguatezza patrimoniale imposte dall’Europa è sempre più difficile, il ricorso indiscriminato al recupero crediti non appare l’arma vincente, rischiando di affinare eccessivamente la clientela senza avere soddisfazione della pretesa per incapienza di almeno buona parte degli esecutati.
Al contrario, l’adesione alle procedure di mediazione (come anche a quelle avviate davanti all’Arbitro Bancario Finanziario) può aprire la strada a soluzioni soddisfacenti per l’istituto creditizio ed in grado di recuperare la fiducia del cliente, che sarà fidelizzato piuttosto che indotto a fuggire alla prima opportunità.
Il cliente che lamenta la poca chiarezza nell’applicazione del contratto sottoscritto con la banca potrà avere (in tempi assai brevi, dal momento che la durata massima del procedimento è tre mesi) piena soddisfazione su tutti i suoi dubbi da un funzionario disponibile delegato a presenziare alla procedura di mediazione e, anche qualora dovessero prevalere le ragioni dell’istante, i costi per entrambe le parti sarebbero comunque di gran lunga inferiori, se si pensa che anche la consulenza tecnica eventualmente esperita in mediazione ha un costo decisamente inferiore all’omologa CTU giudiziale.
Il cliente in temporanea carenza di liquidità, con l’ausilio del mediatore, potrà addivenire ad un accordo di risanamento che gli consenta di appianare il debito, e di soddisfate, quindi, le aspettative di recupero della banca, senza dover subire spiacevoli azioni legali; ciò ancora una volta grazie ad una procedura agile, informale, veloce, di costi contenuti e che garantisce la massima riservatezza.
E in sintonia con la descritta teoria paiono muoversi anche i più recenti interventi in materia di crisi di impresa, quali, tra le altre, la composizione negoziata per la soluzione delle crisi d’impresa e le nuove procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento.